libro di ilda cullen, leggetelo!!!!!

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ilda cullen
TOPIC_ICON2  view post Posted on 3/4/2009, 15:11




ciao a tt!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
fatemi un favore..... leggete il mio libro :31.gif: ............ poi ditemi k ne pensate!!!!!!!!!!!!!




Prologo
La partenza
Ero seduta sul sedile posteriore della limousine di mio padre, e viaggiavamo a tutto gas verso l’aeroporto. Era estate e a Londra c’erano 23 gradi, indossavo una delle mie tante camice con sotto dei jeans scuri e delle scarpe da ginnastica.
Ero sempre stata un tipo elegante e raffinato, ma da quando avevo smesso di far parte dei club privati che mio padre mi costringeva a frequentare, avevo smesso anche di vestirmi bene per iniziare ad adattarmi alla mia nuova vita che sarebbe durata 2 anni, nei quali mio padre sarebbe andato in Italia per lavoro, e io sarei dovuta andare ad abitare a Seattle nello stato di Washington da mia madre.
Mio padre e mia madre avevano divorziato poco dopo la mia nascita, avevano due caratteri troppo diversi e dopo poco la mia nascita mio nonno era morto, così mio padre aveva dovuto prendere il suo posto come capo di un’azienda petrolifera molto ricca. Così non aveva mai tempo per mia madre e dopo poco si lasciarono. Io restai con mio padre, nella sua lussuosa villa nel centro di Londra.
“Emma, piccola siamo arrivati.”
“Arrivo papi, aspetta solo un attimo, devo prendere alcune cose dalla mia valigia blu.” il mio bagaglio erano due valige che mi arrivavano sopra la vita e una a mano con alcuni passatempi per il viaggio.
“Te lo ripeto piccola, per me non ce alcun problema a farti viaggiare con uno dei miei jet. Così sarai più comoda e io meno in pensiero”
“Papa”dissi esasperata “ho 17 anni sono in grado di viaggiare da sola, non ti preoccupare ti chiamo appena arrivo e minimo una volta a settimana ci sentiamo. Okay?”
“Sei proprio sicura di voler andare da tua madre? Se vuoi puoi venire con me in Italia…”
“Non ti preoccupare, starò benissimo con la mamma. Nelle vacanze invernali ti vengo a trovare.” E prima che riuscisse ad aggiungere altro gli diedi un bacio sulla guancia, lo presi sotto braccio e ci incamminammo con al fianco due fedeli guardie del corpo vestite di nero con gli occhiali da sole.
Quando fummo al punto di separarci mio padre mi abbracciò e mi sollevò da terra di pochi centimetri, quando mi rimise con i piedi per terra e mi avvicinai per dargli un bacio sulla guancia, vidi che aveva gli occhi lucidi .
“Papà, guarda che non me ne vado per sempre…”gli dissi abbracciandolo al petto poiché era troppo alto per me.
“Ci rivedremo presto fra pochi mesi, a natale così passeremo tutte le vacanze a sciare e a giocare a palle di neve come quando ero piccola.”
“Va bene piccola, scusa è che penso a come sarà vuota la mia vita senza i tuoi continui incidenti casalinghi, e le corse per metterti i cerotti dappertutto…”
In quel momento il mio cellulare vibrò e io mi sciolsi dall’abbraccio di mio padre per rispondere.
“Pronto, chi parla?” Chiesi fingendo di non sapere chi fosse, benché il suo nome fosse scritto sullo schermo del mio cellulare.
“Jack!” Dissi sprizzando gioia da tutti i pori ben sapendo che mio padre nel momento stesso in cuoi avevo detto quel nome aveva messo il broncio.
“Sì sto partendo. Scusa se non ti sono passata a salutare ma dormivi ancora quando sono passata davanti a casa tua…” Jack, era il mio ragazzo, e mio padre essendo super protettivo nei miei confronti, metteva subito il broncio appena si sentiva pronunciare il suo nome. Stavamo insieme da poco e io ero felicissima.
“Sì, starò attenta a non far cadere l’aereo con la mia sfortuna…” dissi ridendo.
“…cosa?! Sei qui?” Mio padre mi guardò subito male, io invece ero felicissima.
“Sì, l’imbarco è il numero quindici. Ti aspetto!”
Mio padre mi guardò e poi senza preavviso disse:
“Forza signorina devi imbarcarti immediatamente.”scandì l’ultima parola con forza.
“Ma papi devo salutare Jack, sta per arrivare.”poi guardai l’orologio. “E inoltre manca ancora più di mezzora prima che parta l’aereo.”
“Non si sa mai che l’aereo parta prima. Su veloce, spegni il cellulare. Saluto io il tuo amico Canner da parte tua.” E intanto mi spingeva verso l’imbarco.
“Papà l’asciami andare!” Strillai.
“Se non mi lasci non verrò a trovarti mai.” Sapevo che era un colpo basso per lui, ma volevo ad ogni costo salutare Jack prima che me ne andassi.
Mio padre sospirò e si arrese. “Va bene piccola, scusa. Ora vado a prendere un caffè al bar così tu saluti Jack per bene.” Mio padre odiava il caffè dei bar, e come odiava il caffè odiava anche Jack.
“Grazie papi, non sai quanto mi fai felice!” Lo abbracciai velocemente e poi iniziai a guardarmi in torno per vedere da dove arrivasse Jack, pronta a corrergli in contro e lanciarmi in braccio a lui.
“Ei Emma!” Gridò una voce famigliare senza fiato.
“Jack!!!” Urlai sbracciandomi per farmi vedere meglio.
Come nelle mie previsioni iniziai a correre verso di lui e gli buttai al collo le braccia.
“O Jack! Come sono felice che tu sia venuto a salutarmi.”
“Odiavo non vederti per così tanto tempo senza neanche salutarti.” Mi disse a un orecchio.
Il suo fiato caldo sul collo mi fece venire i brividi, non di freddo ma di piacere di essere ancora una volta fra le sue forti braccia.
“Quanto vorrei che tu potessi venire con me a Seattle.” Dissi triste.
Gliel’avevo detto un milione di volte ma sapevo che il mio desiderio era irrealizzabile. Lui aveva la sua famiglia, e le sue sorelle più piccole e cui badare fino a quando sua madre non fosse uscita dall’ospedale.
“Ho una sorpresa per te.” Mi disse dolcemente all’orecchio, prima di sciogliere il nostro abbraccio.
Io non ero affatto d’accordo. Erano gli ultimi minuti che potevo stare con lui, e volevo sfruttarli al massimo. Poi chissà quando l’avrei rivisto.
Lui mi guardò negli occhi con un sorriso caldo. Mi prese la mano e ci mise dentro un pezzo di carta. Io stupefatta aprii la mano. Pian piano il mio viso si aprì in un sorriso, e io lo guardai con occhi allo stesso tempo stupefatti e felici.
“Jack ma questo è un biglietto aereo per Seattle!” Dissi ancora sorridendo felice.
“Già così appena mia madre esce dall’ospedale durante la prima vacanza che si presenta ti vengo a trovare.” Mi guardò negli occhi. Poi mi prese la testa fra le mani e mi diede un bacio. Io glielo
restituii, felice, sprizzando gioia da tutti i pori.
“Non vedo l’ora che arrivi quel momento.” Dissi quando smise di baciarmi. Sapevo che dal bar mio padre aveva trovato una postazione strategica per controllarmi. E che aveva messo o Charlie o Harry (le guardie del corpo che ci accompagnavano ovunque, e con cui da piccola giocavo sempre) a guardarmi da vicino. Non pensai nemmeno a cercare di nascondersi da loro, perché era impossibile sapere dove fossero. Così decisi di far finta di nulla e godermi quel momento di felicità.
“Anche io.” Disse lui interrompendo i miei pensieri.
“Prometti che almeno una volta ogni tre giorni ci sentiamo.”
“Certo se vuoi anche ogni giorno.”
“Non esageriamo! Però ammetto che mi farebbe piacere.”
“Facciamo due e la domenica esclusa.”
“Vada per due.” Dissi felice.
“Emma! Vieni devi imbarcarti.” Mi urlò mio padre dal bar.
“Vai Emma! E ricordati di prenderti cura di te stessa…” Disse ridendo, forse ricordandosi di qualche mio stupido incidente, o dei miei cerotti continui. “…è un ordine.”
“Va bene capitan Jack.” Dissi facendo il saluto militare.
“Milady Emma MC Jonson, mi dia un bacio per suggellare il nostro patto.”
“Certo capitano Jacopo Canner.” Sentii il sangue invadermi le guancie, e capii di essere arrossita. Poi successe tutto molto velocemente; io lo baciai, lui mi prese la testa fra le mani e mi restituì il bacio, durante quel bellissimo momento mi cadde il cappuccio che mi copriva la testa e la faccia. Le persone che erano all’aeroporto si girarono verso di noi. Io staccai le labbra da quelle di Jacopo per rimettermi il cappuccio. Ma il danno era già fatto. Tutte le persone mi avevano riconosciuto. La bella attrice figlia di Michele MC Jonson, il capo dell’azienda petrolifera più ricca del mondo, era all’aeroporto. Qualcuno gridò il mio nome, altri si fecero avanti verso di me per guardarmi meglio, altri ancora iniziarono a farmi delle foto (stupidi turisti che hanno sempre la macchina fotografica al collo!).
Harry e Charlie fecero irruzione nella folla mi presero uno per braccio e mi aiutarono a passare in mezzo alla folla. Jack stentava a tenerci dietro con tutte le persone che ci inseguivano. Così allungai la mano verso di lui e lo trascinai vicino a me.
“Signorina, deve imbarcarsi immediatamente. Suo padre si è fatto dare il permesso per salire sull’aereo prima che parta per salutarvi.” Mi disse Harry.
“Harry ma devo salutare bene Jack!” E strinsi la stretta attorno al suo polso.
“Cercheremo di far salire anche lui, ma sa che suo padre non è d’accordo.” Disse Charlie.
“Non importa fatelo salire.”
“Certo signorina.” Dissero in coro.
“Ei Harry, Charlie non chiamatemi signorina!”
“Vuole che la chiamiamo signora MC Jonson?” Mi chiese Harry stupefatto.
“Ma no! Chiamatemi come sempre anche in pubblico!”
“Certo Emma!”
“Infondo per me siete come due tutori e compagni di gioco!” dissi allegramente quasi scordandomi della posizione in cui eravamo e dai cui dovevamo fuggire.
“Ei Emma, potresti allentare un po’ la presa sul mio braccio! Mi fai male.” Mi ero completamente scordata che stavo quasi trascinando Jack.
“Scusa è che non voglio perderti.” Gli sorrisi, e allentai la presa.
Eravamo quasi arrivati all’imbarco quando qualcuno ci si parò davanti e ci abbagliò con un flash. Capii immediatamente chi era. Uno di quegli stupidi e ficcanaso dei paparazzi che non perdevano un attimo della vita privata delle persone ricche e importanti. A me non interessava essere conosciuta e ricca. Volevo solo stare con mio padre e Jack.
Ero riuscita a nascondere benissimo la mia relazione con Jack alla stampa o a chiunque altro non fosse di famiglia. E ora per colpa di uno stupido cappuccio era andato tutto a monte. Mio padre non ne sarebbe stato affatto felice. Non voleva pettegolezzi su di lui e ancor meno su di me. Però sapevo che non mi avrebbe fatto la ramanzina visto che stavo per andarmene, ma ero pronta a mettermi i tappi nelle orecchie alla sua prima telefonata.
“Mettila giù. O te ne pentirai!” Gridò Charlie al paparazzo. Nello stesso momento fece finta di saltargli addosso, invece diede un calcio alla macchina fotografica e la fece cadere a terra rompendosi.
“Tieni questi soldi così te ne compri una nuova e meno scadente.” Dissi io sorridendogli, allungando verso di lui con un biglietto da cinquecento sterline.
“Emma ma che fai?” Mi chiese Harry.
“Gli ripago la macchina fotografica. Dissi semplicemente prima di allontanarmi dall’uomo.
“Grazie, miss MC Jonson.” Mi disse l’uomo.
“Prego. Andiamo se no facciamo tardi!” Così ci avviammo verso l’imbarco numero quindici.
“Sei stata fortissima!” Mi dissero in coro Charlie e Harry quando fummo abbastanza lontani dall’uomo.
“Grazie!” Risposi. E diedi il cinque a tutti e due. Poi sorrisi a Jack.
Eravamo davanti all’imbarco. Io feci vedere il biglietto alla hostess. E mi fece passare. Poi lei guardò verso Harry e Charlie che le dissero qualcosa sotto voce. Riuscii solo a sentire: <<…anche il ragazzo?>> e <<…mmm… ok.>> dopo questo fece passare anche loro e ci avviammo verso il mio posto.
“Emma! Per fortuna non è successo niente! Mi sono spaventato.” E dicendo questo mio padre lanciò un’occhiataccia a Jack.
“Salve signor Jonson.” Disse lui educato.
“Mmm…” Fu la sola risposta di mi padre. Io lo fulminai con lo sguardo.
“Emma… ha appena chiamato tua madre e ha detto che lei non vive a Seattle…” Io lo guardai spaventata e sorpresa. Conoscendo mia madre poteva essere andate ad abitare in Africa o in Messico. Ma non ci volevo pensare.
“E dove abita esattamente?” dissi fingendo non curanza.
“A Port Angeles… è una cittadina più piccola con cui arriverai con un altro aereo.”
“Ah…” Ero pronta al peggio ma non mi sembrava così brutta come evenienza. “Ok. Mi aspettavo che fosse andata ad abitare in Africa o in Paraguai.” Dissi scherzando. Ma c’era dell’altro. Lo sentivo. Così dissi a mio padre. “Spara. Che altro c’è?”
“Non te lo voleva dire perché si vergognava di vivere in un posto così piccolo confronto a noi…” Io rimasi di sasso.
“L’ha detto a me visto che dovevi andare da lei. E io ti prego di non dirle niente al riguardo.”
“Va bene papi.”
“E inoltre…tua madre si è risposata.” Disse tutto d’un fiato. Io stavolta rimasi veramente scioccata.
“Oh” Fu l’unica cosa che riuscii a dire.
La hostess si avvicinò a noi per dire che l’aereo stava per decollare.
“Mi mancherai tanto piccola.” Mi disse mio padre. Io lo abbracciai.
“Anche tu papi.” Restammo così per alcuni minuti. Poi mi sporsi per salutare Harry e Charlie.
“Ciao ragazzi mi mancherete!” dissi con gli occhi lucidi.
“Anche tu Emma.” Sorrisero e mi abbracciarono.
“Verremo anche noi a sciare in montagna.” Io battei il cinque ad entrambi e mi voltai verso mio padre per fargli capire di iniziare a scendere. Lui stranamente capì e non fece storie. Mi diede un ultimo bacio sulla testa e poi si avviò verso l’uscita.
“Jack…” Iniziai. Ma lui fu più svelto di me e mi baciò. Io ricambiai il bacio e non mi accorsi della catenina che mi legò al collo.
“Portala sempre con te.” Mi sussurrò all’orecchio. Io feci segno di sì e gli diedi un altro bacio. La hostess rossa in volto si avvicinò a noi. “Ehm… signori l’aereo sta per decollare.” Disse e poi si allontanò.
“Mi mancherai. Penserò ogni secondo a te. Te lo giuro”
“Non promettere cose che non sono vere.” Dissi io.
“Ma è la verità…” Mi disse sussurrandomelo all’orecchio.
“E come farai durante i compiti in classe a rispondere alle domande?” Certa di averlo incastrato.
“Penserò a te che mi dai le risposte corrette. Anche se conoscendoti saranno tutte sbagliate!!!” Rise.
“Stupido… però mi mancherai sul serio!” Sospirai.
“Devo andare. Chiamami appena arrivi intesi!” mi guardò preoccupato.
“Intesi capitan Canner.” Cercai di ridere ma mi uscì solo un singhiozzo. Lui mi abbracciò e mi baciò la testa.
“Non piangere, se no sarà l’ultima immagine che ho di te. Sorridi.” Mi guardò negli occhi e mi baciò. Era un bacio diverso dagli altri. Era un bacio umido. Anche lui era triste. Ma quando lo guardai negli occhi mi sorrideva. Un sorriso caldo che illuminò anche il mio viso.
“Non vedo l’ora che tua madre esca dall’ospedale!”
“Anche io.” Mi baciò e si incamminò verso l’uscita.





























1.
la prima cosa

Ero arrivata a Seattle e avevo preso un piccolo aereo per arrivare a Port Angeles, dove avrei incontrato mia madre. Chissà che donna era diventata in quei tre anni in cui non ci eravamo viste, e che lei si era sposata. Forse aspettava anche un bambino. Sarei riuscita a considerarlo mio fratello? No non penso proprio. Ero sicura che sarei impazzita in quel posto. Non vedevo l’ora di chiudermi in camera mia e piangere sulla mia sciocchezza. Sempre che l’abbia avuta una camera. Forse avremmo dovuto dormire tutti insieme nella stessa stanza. Non volevo neanche pensarci. Esigevo la mia privacy.
Persa nei miei pensieri mentre ascoltavo ‘monsoon’ qualcuno mi chiamò.
“Signorina vuole da bere?” Mi chiese la hostess di quel (non si poteva neanche chiamarlo aereo) trabicolo.
“No grazie.” Risposi sicura che tutti i succhi di frutta o bibite su quell’aereo fossero scaduti. Non mi andavo proprio di passare la mia prima notte a Port Angeles chiusa in bagno a rimettere.
Quando arrivai all’aeroporto andai subito a prendere il bagaglio. Mentre aspettavo che passassero le mie valigie accesi il cellulare per telefonare a Jack e papà.
5629 digitai sulla tastiera per far accendere il telefono. Composi il numero 1 e chiamai mio padre.
Rispose la segreteria, così lasciai un messaggio dicendo che era andato tutto bene. Schiacciai il rosso e misi giù.
All’improvviso il mio cellulare iniziò a vibrare, e sullo schermo uscii un numero sconosciuto.
“Pronto?” Risposi.
“Ciao Emma, sono la mamma.” Rimasi muta. “Non posso venire a prenderti all’aeroporto perché ho da fare. Quindi verrà David…” Io la interruppi.
“Mamma, chi è David? Come faccio a riconoscere questo tizio?” Ero esasperata. Non solo mia madre mi aveva mentito ma non poteva neanche venire a prendermi all’aeroporto.
“O già. David è il tuo nuovo padre…”
“Io un padre ce l’ho già! E non intendo averne un altro, che per di più non conosco! Chiaro?” Ero furiosa. Come si permetteva mia madre di dire che quel David fosse il mio nuovo padre. Forse era meglio se fossi andata in Italia. Meno male che fra un anno avrei avuto diciotto anni così me ne sarei andata da questo buco senza sole ed eterne nuvole grigie.
“Ehm scusa…David è mio marito…comunque lui ti riconoscerà perché gli ho dato una tua foto.”
“Bene. Ciao.” E sbattei il telefono in borsa. “Ei! Emma!” Sentii qualcuno chiamarmi. Mi girai verso la voce e vidi un uomo alto, capelli corti e scuri, occhi azzurri, con addosso dei jeans e una maglietta a maniche corte azzurro chiaro.
“Io sono David, piacere.” E mi tese la mano. Io la strinsi. Dovevo ammettere che mia madre aveva gusto in fatto di uomini.
“Io sono Emma MC Jonson. Piacere mio.” Dissi cercando di essere allegra. Vidi le mie due valigie e mi precipitai a prenderle. Ma mentre correvo inciampai e finii addosso a qualcuno, che però non cadde. Ero rimasta avvinghiata a quella persona chiunque fosse, così piena di stupore per non essere caduta insieme al misterioso personaggio. Cercai di ridarmi contegno.
“Mi scusi signore.” E sollevai il capo. Rimasi a bocca aperta. Era un ragazzo, della mia età, con dei bellissimi capelli color rame, e degli occhi color ambra, miele. Era bello da mozzare il fiato.
“Si figuri signorina?” Io ero senza parole. Sembrava che avesse mangiato chili di miele. Aveva una voce dolce e distaccata allo stesso tempo. Cercai di riscuotermi e farfugliai:
“Emma… Emma MC Jonson.” Tesi la mano ma lui non la strinse. Mi sorrise, in un modo che dovrebbe essere ritenuto illegale si girò e andò verso un gruppo di ragazzi. Io ancora a bocca aperta non mi ero accorta che David aveva ritirato le valigie, e che era al mio fianco.
“Andiamo Emma se no tua madre si preoccuperà.” Disse David, distogliendomi dai miei dolci pensieri.
“Arrivo…” Poi mi accorsi che aveva preso le mie valigie. “Grazie di aver recuperato le valigie.” Farfugliai ancora abbagliata dalla bellezza dello sconosciuto.
“O figurati, ora siamo quasi come una famiglia!” Disse allegro. Aveva capito che io non lo consideravo un vero famigliare, e anzi che per me fosse un estraneo comparso nella mia vita come un fulmine. Quindi evidenziò con un tono di voce più forte la parola ‘quasi’. Io gli rivolsi un sorriso caldo e sincero, il primo che facevo da quando avevo salutato Jack.
“Bene allora si parte!” Dissi a David, e feci per incamminarmi, ma ovviamente grazie alla mia sfortuna appena mossi il primo passo, caddi rovinosamente al suolo. David si precipitò subito a soccorrermi, ma io mi misi a ridere, pensando a quanti altri incidenti del genere avrei fatto prima di sera; e lui contagiato dalle mie risate iniziò prima a ridere sotto i baffi, e pian piano non riuscì più a trattenersi e iniziò anche lui a ridere. Così capii che saremo andati d’accordo, e che con quella risata suggellammo la nostra amicizia. Così ci incamminammo verso la macchina, e io verso la mia nuova vita, e non immaginavo neanche quanto.
“Siamo arrivati!” Urlò David appena messo piede in casa.
“Finalmente! Iniziavo a preoccuparmi.” Rispose una voce femminile. Io la riconobbi subiti, era quella di mia madre. Dal fondo del corridoio si aprì una porta di legno, e ne uscì una donna con i capelli color ebano, un po’ ingrigiti dal tempo, meno lucenti e setosi dei miei, ma sempre bellissimi, degli occhi turchese intenso con delle lievi sfumature viola, come i miei. Mi accorsi solo ora quanto somigliassi a mia madre.
“Emma! Piccola.” Quel ‘piccola’ mi suonava strano detto da qualcuno che non fosse mio padre, ma pur sempre famigliare.
“Ei mamma.” Dissi allegra. Una cascata di capelli mi inondò il viso. Profumavano di lavanda fresca, l’essenza che adorava mia madre.
“Mi sei mancata piccola!” Mi strinse ancora più forte. Non volevo darlo troppo a vedere ma quell’abbraccio mi faceva piacere e mi ricordava la mia infanzia, quando mia madre veniva da noi a Londra tutte le estati per passare le vacanze con me.
“Anche tu mamma!”
“Come sei diventata bella Emma, sai ti ho visto alcune volte in tv e su alcuni giornali. Sono fiera di te!”
“Grazie mamma.”
“Vedo bene che non ti sei ancora stancata del tuo shampoo ai frutti di bosco e il bagno schiuma al cioccolato.” Mia madre non apprezzava troppo i miei gusti. Lei preferiva le cose naturali.
“E tu della lavanda.” Dissi sciogliendo l’abbraccio e sorridendole.
“Che buon olfatto piccola!”
“Avrò pur preso da qualcuno.”
“Sicuramente non da tuo padre. Non distingue la lavanda dall’eucalipto!” Disse come se tutte le persone del mondo sapessero che odore avessero.
“Ti ricordi quella volta che mi ha comprato una boccetta di eucalipto per l’ambiente invece di quella alla lavanda?” Disse sorridendo.
“Già. In alcune cose papà è proprio negato!” Risi. E per un attimo pensai come fosse stata la mia vita se mia madre fosse rimasta con noi. Ma ormai era tardi, e lo sapevo. La vita va come deve andare, e non si può tornare indietro.
“Entriamo in casa, non stiamo in corridoio!” Disse allegra mia madre.
“Immagino che Emma vorrebbe vedere la sua camera.” Disse David a mia madre. Io gliene fui grata.
“O già, scusa cara! David la puoi portare tu di sopra?”
“Certo tesoro.” Rispose lui.
Ci avviammo su per le scale. Sinceramente non pensavo neanche che mia madre avesse una casa così grande, e per di più in una città; anche se era una città molto piccola, era pur sempre una città.
“Grazie David!” Gli dissi appena fummo soli.
“Prego. Sinceramente si vedeva che volevi rintanartene un po’ da sola in camera…” Io diventai rossa come un peperone.
“Già.” Fu l’unica cosa che riuscii a dire imbarazzata com’ero.
“Spero di non averti offesa…” Disse lui impacciato.
“No figurati.”
“Allora…esco. Suoniamo il campanello quando è pronta la cena…” Mi salutò e uscì tirandosi dietro la porta.
Io stanca per il viaggio mi buttai sul letto e quando sentii la federa bagnata non me ne preoccupai più di tanto, perché per me era più che strano non essere fuggita appena messo piede in quella casa in una qualunque delle stanze a piangere e a disperarmi. Dopo non so quanto tempo che mi trovavo sdraiata sul letto, sentii le palpebre pesanti e pian piano senza neanche accorgermene scivolai nell’incoscienza.
Mi svegliai che ormai era già buio, la sveglia sul comodino con le lancette fosforescenti segnava le 8.35 e a giudicare dal buio era sera. D’un tratto mi resi conto che avevo dormito quasi ventiquattro ore. Balzai in piedi e mi accorsi di essere sotto le coperte. Aprii la porta e scesi le scale che davano nel soggiorno. Mi aggiravo per casa cercando il bagno, quando da dietro una porta comparve mia madre.
“Emma, finalmente ti sei svegliata! Iniziavo a preoccuparmi. Cerchi qualcosa?”
Io feci cenno di si con la testa. Avevo la bocca troppo impiastrata per parlare.
“Il bagno?” Esclamò mia madre.
Io feci di nuovo di sì con la testa.
Lei mi indicò la strada, e io ancora mezza intontita mi incamminai verso il presunto bagno.
Dopo essermi lavata e essermi messa dei vestiti puliti, uscii dal bagno e mi diressi verso quella che supponevo fosse la cucina. La casa non era troppo grande ma era difficile sapere dove fossero le stanze. A pian terreno c’era il bagno, la cucina, il salotto e il corridoio. Di sopra invece c’erano le camere da letto, un altro bagno e una stanzina di legno che non avevo ancora ben capito a cosa servisse.
Azzeccai la stanza e iniziai a guardare nella dispensa per vedere cosa c’era da mangiare. Ero abituata alla mia enorme dispensa piena di tutto quello che cercavi, per i miei amici era meglio di un super market. Mi fermai a pensare ai miei amici che avevo a Londra e tutto d’un tratto mi venne in mente Jack, e la promessa che appena arrivata lo avrei chiamato. Ma quando ero arrivata a Port Angeles non ero riuscita a telefonargli con gli inconvenienti che si erano verificati. Così corsi su per le scale e presi il cellulare dalla borsetta.
“Pronto chi è?” mi rispose la voce al di là della cornetta.
“Jack!”
“Emma!”
“O Jack non sai quanto sono felice di sentire la tua voce!”
“Emma sei una stupida!”
Io rimasi a bocca asciutta.
“Non lo sai che ero in ansia! Mi avevi promesso che mi avresti chiamato appena saresti arrivata a Port Angeles!” Era furioso e lo si sentiva dalla voce.
“Jack…” Provai a spiegare, ma lui mi interruppe.
“Potevi anche essere morta per quel che ne sapevo. Certo questa ipotesi non l’ho presa neanche in considerazione, ma tu non sai come mi sentivo…”
“Basta!” Strillai. “Non ho avuto il tempo di chiamarti. Tu non sai cosa mi è successo.”
“E allora spiegamelo.”
“Bene allora mettiti comodo.”
“Bene. Sono abbastanza comodo per sentire tutto quello che hai da dire, che siano balle oppure no.” Disse irritato,
“Bene: prima di tutto ho dovuto prendere un trabicolo (visto che quel coso non si può chiamare aereo) per arrivare a Port Angeles, la hostess mi ha offerto dei succhi di frutta scaduti. Come se non bastasse mia madre mi telefona e mi dice che sta per arrivare il mio nuovo padre a prendermi, io ovviamente mi sono inc…incavolata e le ho buttato giù il telefono dopo averle detto due cosucce. Poi ho quasi rischiato di perdere le valigie perché sono inciampata e sono andata a finire contro un ragazzo…” A quel punto decisi di riprendere fiato e l’immagine dello sconosciuto mi si fermo davanti agli occhi. Decisi che ci avrei pensato dopo non era quello il momento migliore per pensare ai ragazzi. “…che era talmente duro che mi sono fatta un bernoccolo. E poi quando sono arrivata a casa di mia madre ho dormito quasi ventiquattro ore, e ora mi è venuto il mal di testa. Qua poi non sembra neanche estate, c’è il cielo grigio coperto di nuvole. E la cosa peggiore è che tu e papi mi mancate, come mai prima d’ora.”
Restammo per un po’ tutti e due in silenzio, fu lui a romperlo.
“Mi dispiace davvero. È che ero in ansia…” voleva aggiungere qualcosa ma non lo fece.
“Che altro vuoi sapere?”
“No volevo sapere…si insomma…com’era quel…ehm ragazzo.” Forse aveva sentito la pausa che avevo fatto mentre ne parlavo, o forse come ne avevo addirittura parlato.
“Jack.” Risi. “Non lo conosco neppure, è stato solo un compagno di sventura su cui mi sono fatta un bernoccolo.” Feci una pausa. “Non sarai mica geloso, vero?”
“No, figurati.”
“Meno, male. Perché sai che io non ti lascerei per niente al mondo.”
“Ma questo ragazzo…”
“Basta!” Lo interruppi. “Non voglio parlare con te di quel ragazzo.”
“Volevo solo sapere che colore aveva i capelli e gli occhi. Tutto qua.”
“E va bene. Aspetta un attimo che ci penso…” Ripensai a quel momento, e subito la faccia dello sconosciuto mi si stampò nella testa, come sempre quando ci pensavo.
“Ha dei capelli color rame, corti. Dei bellissimi occhi color ambra miele. Una voce mielata. Alto, con la pelle chiarissima, e un corpo duro come il marmo. Età sui diciassette diciotto anni.” Dissi quasi ipnotizzata al ricordo.
“No, non dirmelo.” Disse lui, risvegliandomi dal mio stordimento.
“Cosa?” Domandai curiosa. “Lo conosci?”
“Dalla tua descrizione sembra proprio…” Si interruppe.
“Chi?”
“Un ragazzo che ho conosciuto circa tre anni fa. Quando sono andato in Polonia con mia madre. Era insieme alla sua famiglia, Tutti bellissimi. Una volta stavo per cadere da un precipizio, e lui non so come mi ha salvato la vita. Mi ricordo che tutte le ragazze gli andavano dietro. Ma lui non le degnava neanche di uno sguardo. Abbiamo passato più di due mesi insieme e siamo diventati amici, ma da quel giorno non l’ho più rivisto.”
“Uh.” Fu l’unica cosa che riuscii a dire ad alta voce, ma la mia testa era già strapiena di pensieri. Quel ragazzo conosceva Jack, lui lo aveva salvato, tutte le ragazze li andavano dietro e lui non le degnava di uno sguardo…
“Jack, sei proprio sicuro che sia lui? Insomma chissà quanti ragazzi sono così. E da quello che mi hai detto dovrebbe avere già sui venti ventuno anni… una persona non può rimanere diciassettenne per tutta la vita…” Ma mentre dicevo quell’ultima frase un dubbio mi si era già formato nella mente.
“Senti Jack, come si chiamava di cognome il tuo amico?” Non volevo sembrargli troppo interessata, ma ormai ero decisa a scoprire il segreto del ragazzo misterioso.
“…” Prese un respiro e disse: “Emma non è che ti stai interessando a quel ragazzo? Più di quello che vorrei…” Era nervoso lo si capiva dalla voce.
“No Jack…” Ma sapevo che gli stavo dicendo una bugia. “Io ti amo… lo sai vero? Non vorrei un altro ragazzo che non sia tu…”
“Dici davvero? Sai quando ho conosciuto quel ragazzo, tutte le ragazze hanno lasciato i loro ragazzi e senza neanche conoscerlo gli andavano dietro, come calamitate da lui.” Era preoccupato, lo si notava dalla voce. Non volevo in alcun modo farlo soffrire, ma come quelle ragazze in Polonia, era misteriosamente attratta da lui. Tutto in quel ragazzo mi attraeva e mi piaceva; il suo sorriso bellissimo, i suoi occhi, i capelli, il corpo perfetto e muscoloso…
“Emma, tra poche settimane mia madre dovrebbe uscire dall’ospedale. Avevo intenzione di venirti a trovare…. Ma ora non so più se è una buona idea.”
“Adesso smettila!!!” Strillai nel telefono. “Solo perché sono andata a sbattere contro un ragazzo bellissimo e dici di conoscerlo, tu non dovresti venire a trovarmi!?” Ero irritata in modo incredibile.
“Per altro quel ragazzo al novantanove per cento non lo vedrò mai più.”
“Io…” Provò a dire Jack. Ma io lo interruppi.
“Se vuoi che ci lasciamo o che vuoi farmi qualche scenata di gelosia dimmelo chiaramente. Perché io non ho tutto il giorno a disposizione! Inoltre…”
“Emma la vuoi finire di strillare nel telefono! Mi vuoi forse assordare? Tu forse non ti sentivi mentre parlavi, ma avevi la voce ipnotizzata dal ricordo di James. Tu non sai quanto ti amo, e quanto starei male nel perderti…” Si interruppe, e sentii che faceva un respiro lungo per calmarsi.
“Mi dispiace tanto. Scusa non sapevo che tu ci stessi così male… io voglio veramente che tu vanga a trovarmi… se fosse per me dovresti venire subito ma so che i tuoi famigliari hanno bisogno di te, e io aspetto che arrivi il giorno che tu scenderai dall’aereo con il tuo bellissimo sorriso, e che con lo sguardo mi cercherai. Poi i nostri occhi s’incroceranno e tu mi sorriderai. Io inizierò a correrti in contro e molto probabilmente cadremo a terra abbracciati…”
“Ei Emma mi stanno arrivando migliaia di cuoricini dal cellulare!” Scherzò lui.
“Jack, io voglio davvero che sia così. Non prendermi in giro!”
“Anch’io lo voglio. Penso che tra meno di un mese il tuo sogno di scaraventarmi a terra si esaudirà!”
“Allora aspetterò con impazienza.”
TOC TOC
“Scusa Jack, qualcuno mi chiama al di là della porta. Ti chiamo appena posso!”
“Ti amo.” E con questa frase mi salutò.
Mi alzai dal letto e con una mano mi asciugai le lacrime che mi erano scese nell’ultima parte della conversazione. Non volevo che nessuna delle persone che viveva in quella casa mi vedesse avere le lacrime agli occhi. Così senza aprire la porta chiesi:
“Chi è?”
“Sono io Emma.” Disse la voce calda e familiare di mia madre. “Quando sono tornata in cucina non ti ho vista, così ho pensato che fossi tornata in camera tua.”
“Ah”
“Dovrei parlarti piccola.”
“Mamma ora non posso.” Presi fiato per inventare una scusa. Non avevo alcuna voglia di parlare. In quel momento pensai a mio padre. Lui era l’unica persona con cui avevo sempre voglia di parlare, perché lui mi capiva meglio di chiunque altro. Mi girai verso le mie valigie. I vestiti! Pensai entusiasta di aver trovato una scusa per non parlare con mia madre.
“Scusa mamma, devo sistemare i vestiti nell’armadio.”
“Se vuoi ti aiuto.” Insistette lei.
“Non preoccuparti mamma, ce la faccio da sola.”
“Va bene, se hai bisogno di qualcosa chiamami.”
Appena sentii che i passi si allontanavano mi buttai sul letto, e dopo pochi secondi iniziai a singhiozzare. Con la vista annebbiata dalle lacrime presi la mia borsetta e ne tirai fuori una merendina al cioccolato. Inizia a mordicchiarla e quando l’ebbi finita buttai la carta nel piccolo cestino in un angolo della camera. Mi ripartirono i singhiozzi, e per soffocarli misi la testa fra i cuscini, certa che mia madre avesse l’orecchio teso e a un singolo rumore sospetto sarebbe scattata alla mia porta. Quando dopo dieci minuti circa mi fui calmata, presi il cellulare e composi il numero 1.
Dopo vari squilli la voce assonnata di mio padre mi rispose.
“Pronto…”
“Ciao papi!come stai?”
“Emma! Piccola, sai che ore sono! E perché ieri non mi hai telefonato?” ancora una volta mi ero scordata del fuso orario.
“Scusa papi. Mi sono scordata che da qui a casa ci sono otto ore di differenza.”
“Non fa niente piccola. Tu come stai? Il marito di tua madre è simpatico?”
“Certo papi…è…è tutto ok.”
“Emma. Cosa è successo?”
“Niente. Non è successo niente. Ora ti lascio dormire papi, chiamami quando sei libero.”
“Mi spiegherai quando ti sarai tranquillizzata, va bene? Però ti avviso piccola. Se li stai male, e per più di una settimana terrai la voce che hai ora ti vengo a prendere.”
“Papà!” Dissi ridendo.
“Scusa piccola. Lo so, sei grande e te la cavi da sola. Fammi solo un piacere. Se hai bisogno di qualcosa chiamami.”
“Certo papi.”
“Ti voglio bene!”
“Anch’io!” gli mandai un bacio e chiusi la telefonata.
Di sonno non ne avevo. Così come avevo detto a mia madre mi misi a mettere i miei abiti nell’armadio di ebano.
Quando misi a posto l’ultimo abito della prima valigia erano già le dieci. Il mio stomaco inizio a brontolare più forte. Alla fine mi arresi, mi specchiai per vedere se sul mio viso c’era qualche segno di pianto o di tristezza. Avevo solo gli occhi lievemente arrossati, ma per il resto si poteva definire solo lontananza da casa, niente di più.
Uscii dalla mia camera e iniziai a scendere le scale molto lentamente. Quando oltrepassai la porta della cucina il mio stomaco fece un altro lungo brontolio. Io arrossii, David e mia madre si erano voltati a guardarmi. Io feci un cenno di saluto con la mano e mi diressi quasi di corsa verso la dispensa senza guardarmi in giro. Mia madre richiamò la mia attenzione.
“Emma, ti ho preparato il tavolo con la colazione.”
Io mi voltai a guardarla, poi abbassai lo sguardo sulla tavola e vidi che era apparecchiata per una persona.
“Oh…” Fu l’unica cosa che mi uscì di bocca in quel momento. Poi mi ripresi appena vidi mia madre guardarmi. “grazie mamma, non dovevi scomodarti.”
“Figurati piccola! Sai ero un po’ in pensiero. Non è una cosa normale dormire ventiquattro ore di fila. Mi sa che sei proprio figlia di tuo padre.” Disse.
“Non era niente. Ho dormito così tanto solo perché ero stanca dal viaggio.” Era quasi la verità, ma gli nascosi che non avevo dormito per due notti, alla prospettiva che dopo poco sarei andata a vivere con lei.
“Va bene. Ora mangia, ne hai bisogno.” Allontanò la sedia dal tavolo e mi fece cenno di sedermi.
“Grazie di avermela preparata.” Detta questa frase mi sedetti e mi buttai sul mio pan-cake con la nutella. Bevvi tre tazze di te e alla fine della colazione mi sentivo scoppiare. Forse avevo esagerato; tre pan-cake, tre tazze di te, un bicchiere di latte e dei biscotti. Troppo, veramente troppo. Di quel passo avrei perso il mio equilibrio.
Decisi di andare a fare una corsa al parco. Salutai David e mia madre e salii a mettermi una tuta da ginnastica. Presi il mio I pod grigio dalla borsetta, e il cellulare. Scesi le scale e trovai David ad aspettarmi davanti alla porta.
“Emma, visto che sei nuova di qui ho pensato che una guida ti facesse comodo.”
“David non devi disturbarti!” Dissi arrossendo.
“Non parlavo di me Emma. Un ragazzo che vive qui vicino mi deve un favore, e così gli ho chiesto di accompagnarti almeno fino al parco.”
“Grazie David. Ma davvero non ce n’è bisogno. Posso cavarmela.”
Appena finii la frase sentii il campanello suonare.
“Deve essere lui.” Disse David.
Io seguii David verso la porta di casa. Lui la aprii e ne spuntò un ragazzo all’incirca della mia età. Aveva dei capelli corti biondi, occhi azzurro chiaro, alto, pelle chiara, un viso molto carino e un sorriso stampato in faccia. Appena mi vide arrossì e girò lo sguardo verso David.
“Come hai visto sono qui per il favore che ti devo. E’ lei la figlia di tua moglie?”
“Sì, è lei. Dovresti accompagnarla in macchina fino al parco.”
“Certo nessun problema!”
“Vado a prendere una cosa e torno.” Dissi io interrompendoli.
Salii le scale di corsa per cercare gli occhiali da sole. Non volevo che quel ragazzo, chiunque fosse mi riconoscesse come Emma MC Jonson. Volevo farmi apprezzare da tutti per quel che ero. Non perché mio padre era straricco e famoso. Rovistavo nella borsa a mano che avevo portato in aereo e li trovai nella loro splendente custodia nera. Me li misi e scesi le scale un po’ più sicura di prima. Quegli occhiali mi ricordavano Chiara, la mia migliore amica. Li avevamo comprati insieme un giorno di sole, mentre eravamo in giro per negozi.
“Eccoti Emma, finalmente.” Mi disse David sbucando dalla porta del salotto.
“Scusate non trovavo gli occhiali.” E gli indicai con il dito.
“Non fa niente. Tanto non ho alcuna fretta.” Disse la voce del ragazzo.
“Allora andiamo!” Dissi. Mi incamminai verso l’uscita e lui mi seguì.
Quando finalmente varcai la soglia di casa il mio umore allegro si abbasso quasi a zero. Il cielo era coperto di nuvole e l’aria era afosa.
“Io sono William, piacere.” Mi disse il ragazzo.
“Piacere mio.” Gli risposi. Quando i nostri sguardi si incrociarono vidi che era molto carino. Aveva ancora il sorriso di quando era entrato in casa, ma adesso sul suo viso c’erano tracce di disagio.
“Allora, dove vuoi che ti porti?”
“Al parco più vicino. Per favore.”
“Certo Emma!” ci incamminammo verso la sua macchina in silenzio. Io non parlavo perché non ne avevo alcuna voglia. Lui invece era tutto rosso e impacciato. Sorrisi alla sua reazione. Chissà come si sarebbe comportato se avesse saputo chi ero, fino in fondo.
“Sai Emma, tu mi ricordi qualcuno. Il problema è che non mi ricordo chi sia.” Mi disse quando arrivammo davanti alla sua macchina. Una Volvo grigia, tirata a lucido, perfetta se non avesse avuto delle tracce di fango sui paraurti.
“Non penso di averti mai visto William. Forse ti confondi con qualcun altro.” Dissi dirigendomi verso la portiera del passeggero. Lui mi sorrise.
“Già hai ragione. Però continuo a pensare di averti già vista.”
Io gli restituii il sorriso. Lui rimase bloccato un attimo, poi fece scattare la sicura e s’infilò velocemente sul sedile. Io dopo poco feci lo stesso.
“I signori viaggiatori sono pregati di allacciare le cinture di sicurezza.” Disse lui imitando le hostess degli aerei. Io mi misi a ridere, e lui mi sorrise compiaciuto.
Quando arrivammo al parco dopo dieci minuti, lui parcheggiò e scese con me. Io mi voltai a guardarlo. Gli si leggeva in faccia che aveva ancora intenzione di stare con me. Ma io non ne avevo nessuna voglia. Volevo rilassarmi correndo e ascoltando musica. Però non volevo offenderlo, era stato così gentile con me.
“Dove vai adesso?” Chiese esitante.
“A fare una corsa.”
Rimase pensieroso per trovare le parole per chiedermi se poteva correre insieme a me. Prima che dicesse qualcosa dissi: “Spero di rivederti presto William.”
Presi l’ I pod e mi sistemai le cuffie nelle orecchie.
“Senti io devo andare nel bar del parco. Che ne dici di fare un pezzo di strada assieme?” Mi disse lui appena vide che stavo per andarmene.
Io gli sorrisi ironica e dissi: “Se riesci a starmi dietro.”
Iniziai a correre abbastanza velocemente in modo che non mi sarei stancata subito, e che William si sarebbe stancato dopo meno di dieci minuti. Lui iniziò a correre al mio fianco senza alcuna fatica, ma dopo circa quattro minuti iniziò a rallentare. Dopo poco infatti lo distanziai di diversi metri. Lui mi chiamò per aspettarlo, la parte più buona di me fece capolino quando vidi la sua faccia stanca a decisa a seguirmi. Rallentai la corsa, fino quasi a camminare ma non mi fermai. Lui poco dopo mi raggiunse.
“Sei davvero brava. Dovresti partecipare alla gara dei duemila metri che c’è fra pochi giorni in città. Arriveresti di sicuro prima.”
“Non ho tempo. Devo mettere a posto la mia camera e iniziare a ripassare per il nuovo anno scolastico.”
“Dove andrai a scuola?”
“In un istituto vicino a casa. Non so di preciso come si chiami.”
“Anche io vado vicino a casa! E visto che abitiamo vicini forse è lo stesso.”
“Può essere. Mi farebbe piacere conoscere almeno qualcuno.” William era super felice.
“Lo spero anch’io!” Disse entusiasta.
Io gli sorrisi divertita dalla sua espressione euforica.
“Da quello che ho capito tu vieni dall’Inghilterra vero!”
“Sì.”
“Dove di preciso?”
Esitai, ma poi mi diedi della stupida. Nessuno mi avrebbe riconosciuto. A scuola avevamo deciso di usare il cognome di mia madre, e mio padre aveva fatto il lavoro sporco, in qualche modo. Aveva telefonato al preside della scuola e lo aveva pagato per mettere il cognome di mia madre.
“Da Londra.”
“Wow! Ci sono stato una volta. È una bellissima città!”
“Già è proprio bella.” Dissi sospirando. “Che posti ti sono piaciuti di più? Sei andato al castello?”
“Si ovvio. Ha un parco bellissimo. Mi è piaciuta molto anche la villa dei MC Jonson. Magari avessi una casa come loro.”
Io mi fermai di scatto.
“Che succede? Stai male?” Mi chiese lui preoccupato.
“No non è niente. Nostalgia di casa.” Mentii.
“Comunque ero curioso del fatto che tu parli perfettamente la mia lingua.”
“È molto simile all’inglese.” Dissi.
“Già. Però sembra la tua lingua d’origine.”
“Solo studio e impegno. Tutto qua il mio segreto.”
“Ok.”
Avevamo ripreso a correre, ma più lentamente di primi. La compagnia di William non mi dispiaceva.
“Hai degli hobby?” Mi chiese lui improvvisamente.
“Sì!” E senza pensare dissi: “mi piace recitare, sai ho fatto molti film, telefilm reality e cose varie. Ma la cosa che preferisco in assoluto è la moda.” D’un tratto capii cosa avevo appena detto. Me ne pentii immediatamente.
“Uh.” Solo questo uscì dalla bocca di William.
“Scherzavo!” Dissi, volevo depistarlo totalmente e farli pensare che quello che avevo appena detto fosse una balla. “I mie hobby sono fare shopping e correre!”
“Certo.” Disse lui ancora un po’ confuso.
“Forza! Chi arriva per ultimo a quel bareto laggiù paga da bere!” Dissi e iniziai a correre più veloce.
Parlare con William mi veniva spontaneo, e mi divertivo con lui anche se era da poco che ci conoscevamo.
Quando arrivai al bar all’aperto del parco lui doveva ancora arrivare, quindi iniziai a cercare un tavolo libero per sederci.
“Eccomi.” Disse ansimando. “Quindi ora ti devo offrire da bere giusto.”
“Esatto!” Dissi allegra.
Lui, non so come riuscì a trovare un tavolo libero, e andammo a sederci. Ordinammo due coca cole e lui anche delle patatine.
“Poco fa ti ho detto che una cosa di Londra che mi ha molto colpito era la villa dei MC Jonson.
Tu ci sei mai entrata? So che qualche volta è aperta al pubblico per visitare la sala dei ritratti. Quella villa è quasi un castello.”
Sospirai. La sala dei ritratti. Una volta da piccola avevo iniziato ad andare da una parete all’altra seduta sullo skateboard. Mio padre diceva sempre che quando avrei compiuto diciotto anni un mio ritratto sarebbe stato appeso lì, dove era il mio posto.
“Sì. Qualche volta ci sono stata.” Dissi ridendo sotto i baffi. Altro che qualche volta, io ci vivevo in quella casa!
“Davvero com’è?”
Ci pensai su. Non avevo la minima idea di come potesse apparire casa mia a un estraneo. Sicuramente molto bella e sfarzosa.
“È molto bella ed elegante.” Dissi infine.
“Be questo lo sapevo anch’io! A te ad esempio qual è la stanza che ti ha più colpito?”
Di nuovo senza pensare e sovrappensiero dissi: “La mia cara e dolce camera da letto! Con quel letto a baldacchino e le tende color ecru. Il lampadario di cristallo, la mia sedia a dondolo, la scrivania e la sedia ultra comoda, il mio caro e dolce specchio di cristallo con la cornice in oro bianco…” Fantastico! L’avevo fatto di nuovo. Mi ero lasciata prendere dai ricordi. Basta quella sarebbe stata l’ultima volta!
“Sai io immagino molte volte di essere Emma MC Jonson! E poi abbiamo anche lo stesso nome!”
Dissi per riparare al mio errore.
“Già. Io invece immagino di essere il suo fidanzato!” Mi disse lui con aria sognante.
Prima che potessi dire qualcosa aggiunse: “Sai, mia sorella ha preso un giornale e in prima pagina c’è una foto di lei che si sbaciucchia con un ragazzo. È stato identificato come un certo Jacopo non mi ricordo cosa.”
“Cosa? Chi è stato a pubblicarla? Lo faccio fuori chiunque sia!”
“Ehm non riscaldarti. È un tizio che si chiama Tom Faris. È il numero uno dei paparazzi.”
Brutto idiota! Come si era permesso di pubblicare una mia foto. Gliel’ avrei fatta pagare! Povero Jack! Mio padre avrebbe dato la colpa a lui. Oddio!
Presi il telefono dalla tasca e composi di nuovo il numero 1.
“Emma!” Rispose mio padre dopo vari squilli.
“Scusa di nuovo per l’ora! Lo so che stai dormendo ma ti devo dire una cosa importante!”
Mi alzai dalla sedia e feci un cenno a William di restare lì.
“Cosa è successo piccola?”
“Un paparazzo, Tom Faris ha pubblicato una mia foto e di Jack che ci baciavamo, ed è in prima pagina!”
“Quante volte te lo devo dire che non dovete baciarvi in pubblico!”
A mio padre non andava neanche se ci fossimo baciati in una camera blindata.
“Lo so però…”
Non mi lasciò finire e si mise a imprecare.
“Papà devi fargli qualcosa!”
“Cosa vuoi che gli faccia! Ha fatto solo il suo lavoro non posso mica denunciarlo!”
“Pagalo e lo assumi come uno dei tuoi fotografi. Così non ci darà più fastidio!”
“Vedo cosa riesco a fare. Ora lasciami dormire piccola.”
“Certo papi. Scusa ancora per il disturbo.”
“Non fa niente!”
“Notte pa.”
E lui mise giù. Restai un attimo ferma poi mi ricordai di William. Mi incamminai attraverso la folla del bar e arrivai al tavolo.
“Scusa se me ne sono andata via così. Mi sono ricordata che avevo promesso a mio padre che l’avrei chiamato.”
“Ma a Londra è notte in questo momento!”
“E già.” Non sapevo cosa inventarmi.
“Dai non fa niente! Ma dimmi come mai hai deciso di venire qua?”
“Mio padre deve andare in Italia per… per lavoro.” Era la verità dopotutto.
“E tu non volevi saltare qualche mese di scuola?”
“Non è questione di mesi. Starà in Italia per un anno. Così ho deciso di venire da mia madre. Almeno lei sarebbe stata contenta.”
“E tu non lo sei?”
“No…non è questo.... Io preferisco stare con mio padre. Lui mi capisce meglio di chiunque altro… e io mi sento un po’ a disagio con mia madre. Ora si è pure risposata, e io l’ho scoperto solo qualche giorno fa.”
“Ti capisco sai. Il mio migliore amico è in una situazione del genere. So che non è la stessa cosa, ma un po’ capisco come si sente.”
“Il tuo amico abita qui?”
“Sì! Viene nel mio stesso liceo.”
“Allora forse lo conoscerò!”
“Certo! Sono sicuro che andrete d’accordo!”
Continuammo a parlare, perlopiù di cose futili. Avevo una strana sensazione addosso, stare con William mi veniva spontaneo, come parlare con lui. Ad un certo punto ci accorgemmo di aver chiacchierato per più di un ora.
“È già mezzogiorno! Wow come passa il tempo quando si chicchera!” Disse ad un certo punto.
“Forse è meglio che mi riaccompagni a casa.”
“Hai fame?”
“No. Ho fatto una colazione… molto abbondante! Ma mia madre è un po’ paranoica.”
“Okay, però promettimi che ci rivedremo prima che inizi la scuola.”
“Va bene te lo prometto.”
Ci avviammo correndo verso la macchina. Chiacchierammo per tutto il tragitto in macchina, sempre del più e del meno.
“Allora per quando ci diamo appuntamento?” Mi chiese quando spense la Volvo.
“Quando sono libera ti faccio uno squillo.”
“Promettimelo. Non è che mi fidi molto!” Disse ridendo.
“Te lo prometto!” Dissi ridendo anch’io. “Vuoi fare un giuramento?”
“Sarebbe più sicuro.”
“Come vuoi farlo? Giurin giuretta?”
“No così.” Mi prese la spalla e avvicinò il suo viso al mio. Io cercai di opporre resistenza ma lui era più forte. All’ultimo momento riuscii a girare la testa e le sue labbra si posarono sulla mia guancia. Restammo un attimo in quella posizione, poi sgusciai via dalla sua presa. Lo guardai un attimo negli occhi e lui diventò rosso. Abbassai lo sguardo e senza neanche salutarlo uscii dalla Volvo.
Quando entrai in casa mia madre mi salutò allegramente, mi sforzai di sembrare allegra, la salutai con un cenno e salii le scale di corsa. Mi buttai sul letto e ripensai all’accaduto. Ero incavolata nera. Come si era permesso di provare a baciarmi.
Dopo un po’senza dare un ordine preciso al cervello iniziai a pensare al ragazzo duro come il marmo dell’aeroporto. Mi sembrava un angelo, con la sua voce mielata, la pelle chiara, e gli occhi dorati.
Restai chiusa in camera mia fino al tardo pomeriggio, poi scesi in cucina a mangiare qualcosa.
“Emma tutto bene?” Mi chiese mia madre ansiosa. Dovevo aver avuto un’espressione sconvolta quando ero entrata in casa.
“Certo mamma, è tutto okay!” Risposi allegramente.
“Eri strana quando sei rientrata.”
“Sto bene, davvero.”
“Va be.” Sospirò e si diresse verso il salotto per sedersi vicino a David.
Aprii la dispensa e presi un pacchetto di cracker. Iniziai a mangiucchiarli, poi presi un succo di frutta e lo bevvi tutto d’un fiato. Solo in quel momento mi accorsi di quanta sete avevo.
Finita la merenda andai in sala. Mia madre e David stavano giocando a scacchi, così presi il telecomando e accesi la tele. Per tv non c’era niente, così accesi il digitale terrestre che avevo appena notato e cercai Mya. Trasmettevano un telefilm che avevo iniziato a guardare anche a casa. mi sistemai il cuscino dietro la testa e mi abbandonai completamente all’effetto ipnotico della tv.
Così senza neanche che me ne accorgessi si fece sera, e mia madre si alzò per preparare la cena.
David invece, era uscito per andare a ritirare i moduli di iscrizione per il mio esame di guida. Avevo deciso di prendere la patente.
Verso le otto e mezza mia madre mi chiamò a tavola, David era già tornato con i moduli da compilare per l’iscrizione.
Mi sedetti a tavola in silenzio. Mia madre mise in tavola uno spezzatino con le patate, ce lo servì nei piatti e si mise a sedere.
“Buon appetito.” Farfugliai, prima di iniziare a mangiare.
“Altrettanto.” Mi dissero in coro David e mia madre.
Parlammo del mio corso di guida. Sarebbe iniziato il tre di novembre.
Per tutta la durata della cena risposi senza neanche collegare la bocca al cervello.
Dopo aver aiutato mia madre a sparecchiare, ci sedemmo tutti e tre al tavolo per fare una partita a scarabeo.
“Allora Emma, ti sei divertita con William?” Disse mia madre durante il turno di David.
“Mmm.” Dissi solamente. Non avevo intenzione di parlare di William e della mattinata che avevamo trascorso insieme. E avevo ancora meno voglia di dire a mia madre che lui mi aveva baciata con la forza.
“Cosa vuol dire esattamente: mmm?” Chiese lei curiosa.
“Vuol dire esattamente mmm.” Risposi un po’ seccata dall’interesse di mia madre
“Tocca te Emma.” S’intromise David. Ancora una volta mi aveva salvata.
“A, grazie.” E lui capì il mio doppio senso.
Guardai il tabellone di gioco, e poi le mie lettere, perfetto! Cinque spazi vuoti una L e altri spazi vuoti. Era perfetta per la parola che volevo scrivere. Presi le mie lettere e composi la parola ‘ANOMALO’. Sorrisi soddisfatta, stavo vincendo.
“Sei brava in questo gioco piccola!” Disse mia madre.
“Qualche volta giocavo con Charlie e Harry a dei giochi in scatola.”
“Emma secondo te William è carino?” Chiese di punto in bianco mia madre. Io mi irrigidii immediatamente.
“William…William carino?”
“Esatto piccola.”
“Sì, penso di sì. Rientra nella categoria dei ragazzi belli.” Dissi esitando. Ma non volevo dire solo bugie a mia madre, da quando ero andata da lei non avevo fatto altro praticamente.
“Allora un pochino ti piace!?” Mi disse mia madre entusiasta.
“Posso dire che è carino, ma quello no, non mi piace affatto.” Dissi secca.
“Secondo me,” Disse esitando. “tu gli piaci almeno un pochino.”
“Senti mamma a me non interessa affatto William, okay. E poi io sono già impegnata!” Dissi alzando la voce.
“Vuoi dire che sei già fidanzata?” Mi chiese sbalordita.
“Esatto, e non ho alcuna intenzione di parlarne con te, o con chiunque altro che non sia papà chiaro? Quindi smettila con le domande e lasciami in pace!” Avevo iniziato a gridare, e le lacrime mi scendevano veloci sulle guancie.
“Emma, io…”
Non la lasciai finire, mi alzai velocemente dalla sedie e mi diressi correndo verso le scale, feci i gradini due alla volta e arrivata in cima spalancai la porta della mia camera. Una volta dentro girai la chiave e mi chiusi dietro la porta. Una volta fatto quel gesto mi calmai un poco. Mi madre avrebbe potuto starsene quanto voleva davanti alla porta chiedendomi scusa, ma no, non sarebbe potuta entrare.
Mi sedetti sul letto a pensare. In quei pochissimi giorni che ero stata lì avevo continuato a piangere, non potevo andare avanti così. Mi ripromisi che se quella storia fosse durata più di cinque giorni, avrei chiamato mio padre e mi sarei fatta venire a prendere.
Con questa promessa mi misi il pigiama, anche se non avevo assolutamente sonno e mi misi sotto le coperte. Presi dalla mia valigia più piccola uno dei miei manga, ‘rokin heaven’ uno dei miei preferiti e mi misi a leggerlo.
Era quasi l’una quando spensi la luce, ma mi pentii subito di quello che avevo appena fatto. Immediatamente tutte le cose brutte che ero riuscita a scacciare dalla testa ricomparvero tutte insieme. L’addio di Jacopo, e il suo ultimo bacio, umido. Quello di mio padre, ancora più doloroso. L’arrivo all’aeroporto, la telefonata di mia madre. Arrivata a casa la telefonata di Jack. Il bacio di William, e la lite di quella sera stessa con mia madre.
Come facevo sempre prima di dormire, mi misi a pensare, a pensare a quello che volevo. E così quella sera immaginai un’incontro casuale con James, e lui che mi sorrideva e mi baciava. E poi io e lui che andavamo insieme a Londra, in una delle tante residenze della mia famiglia, mio padre felice di vedermi con un ragazzo bello come un angelo, e di fianco a lui mia madre, non Stephenie Hale, ma Stephenie MC Jonson.
Con questo pensiero mi addormentai.



























2.
Sorpresa

Sono passate quasi quattro settimane da quando ho lasciato l’Inghilterra per venire a vivere con mia madre e il suo nuovo marito, David.
Dopo l’ultima discussione con lei non abbiamo più parlato di ragazzi, o roba simile.
Ho fatto pace con William, e domani si è offerto volontario per accompagnarmi a scuola.
“Emma! Sei pronta?” Urlò mia madre distogliendomi dai miei pensieri.
“Un attimo! Prendo gli occhiali da sole e arrivo.”
“Sbrigati! Se no facciamo tardi!”
“Va bene, va bene arrivo!” presi la borsa e gli occhiali da sole, e mi avviai correndo giù per le scale. Ovviamente, grazie alla mia sfortuna inciampai sull’ultimo gradino e caddi rovinosamente a terra.
“Emma ti sei fatta male?” Disse apprensivo David.
“No, e tutto ok.” Dissi rialzandomi lentamente.
“Andiamo, sai com’è fatta tua madre.” Disse ridendo lui. Io alzai gli occhi al cielo pensando al carattere di mia madre, e lui rise ancora più fragorosamente.
“Emma! David!” Urlò mia madre da fuori. Io mi alzai e mi diressi verso l’uscita con David al seguito.
Passammo tutta la giornata in un parco per i picnic, dove ci raggiunse la famiglia di William, William stesso, e dei suoi amici.
William si vantava di conoscermi meglio degli altri suoi amici, e loro non mi staccavano un attimo gli occhi di dosso. Da una parte mi dava fastidio, ma dall’altra ne ero compiaciuta, essendo abbastanza vanitosa.
La giornata trascorse velocemente e in un attimo mi ritrovai nel mio letto, ansiosa per la mia prima giornata di scuola. Pian piano senza accorgermene scivolai nell’incoscienza.
Qualcosa di caldo e morbido mi sfiorò la guancia, “Emma, tesoro alzati, devi andare a scuola.” Mi disse dolce la voce di mia madre, continuando ad accarezzarmi la guancia. Il ricordo del mio primo giorno di scuola mi travolse. Però la mano che mi toccava quella volta, non era liscia e morbida, ma bensì grossa e forte, quella di mio padre.
“Adesso mi alzo.” Biascicai, con la bocca impastata.
“Ti aspetto giù, la colazione è già pronta.” Disse mia madre alzandosi e dirigendosi verso la porta.
“Mi vesto e vengo.”
Quando mia madre uscì dalla mia camera, tutta l’ansia che ero riuscita a scacciare in quei giorni, rifece capolino nella mia testa. Cercai di calmarmi con il pensiero che conoscevo William e alcuni suoi amici, ma neanche quello riuscì a calmarmi.
Mentre mi lavavo e mi vestivo, quasi mi tremavano i denti e le mani. Quando finalmente mi abbottonai l’ultimo bottone della camicia mi ero calmata un poco.
Scesi le scale, cercando di fare un’espressione rilassata e felice, più o meno mi riuscì, e quando entrai in cucina nessuno si accorse di niente, almeno era questo che io credevo.
“Ecco la tua colazione piccola.” Mi disse mia madre indicando con il dito la tavola piena di prelibatezze.
“Grazie mamma!” Dissi quasi dimenticando la mia ansia alla vista di tutte quelle cose buone.
“Forza mangia, se no farai tardi.” Mi disse lei.
“Conoscendo William sarà già in ritardo di suo. Forse è meglio che quando hai finito lo vada a chiamare.” Mi disse David.
“Aah, buongiorno David!”
“Buongiorno a te! Emozionata?”
“Abbastanza.” Confessai. Lui mi sorrise e mia madre mi fece cenno di sedermi. Mi sedetti e iniziai a mangiare. Finita la colazione, David uscì per andare a chiamare William. Io invece andai di sopra a lavarmi i denti e mettermi il mio profumo preferito e il lucidalabbra.
Respirai profondamente, e mi misi sulle spalle lo zaino di scuola. Mi guardai allo specchio e sorrisi alla mia immagine. Feci un altro lungo respiro e scesi le scale.
William era stravaccato sul divano, con lo zaino buttato per terra. Io gli sorrisi, e lui ricambiò.
“Andiamo?” Mi disse ancora sorridente.
“Certo!” E alzai il pollice.
Quando uscimmo di casa ci dirigemmo senza parlare verso la sua Volvo. Prima che potessi entrare in macchina lui mi si parò davanti e mi aprì la portiera con un inchino.
“Prego miss Hale, da oggi studentessa americana.” E mi fece l’occhiolino. Io gli sorrisi grata, sapevo che stava cercando di far sparire la mia ansia.
“Grazie, MR William.”
Quando mi sedetti sul sedile della sua Volvo e mi allacciai la cintura una nuova ondata di ansia mi travolse e mi fece tremare per pochi attimi. Feci appena in tempo a ricompormi che William entrò in macchina con un gran sorriso stampato sulle labbra. Io gli sorrisi debolmente e lui, sicuramente si accorse che avevo qualcosa che non andava, ma fortunatamente me non me lo fece notare.
La sua Volvo si accese facendo le fusa. Per tutto il tragitto, che non fu neanche molto lungo, William continuò a blaterare sulla scuola e sui prof. Ma io non lo ascoltavo, e fortunatamente non mi fece nessuna domanda, o almeno credo. Dopo una quindicina di minuti, che a me parvero pochi istanti sullo sfondo della strada si stagliò la scuola superiore di Port Angeles.
“Ei Emma! Vuoi restare in macchina?” Mi disse William quasi risvegliandomi. Io scesi all’istante, ma ovviamente mi ero scordata di essere legata con la cintura di sicurezza (quanto rimpiangevo la lussuosa limousine di mio padre!), così mi ritrovai di nuovo contro il sedile morbido. Quando mi ripresi e sentii William che stava trattenendo una risata, slacciai la cintura e imbronciata scesi dall’auto con fare aggraziato ed elegante. Scesi dalla Volvo, come se scendessi dalla limousine nera splendente di mio padre quando andavamo alle feste di gala o a qualche sfilata.
William rimase imbambolato a guardarmi, come se avesse appena visto un fantasma bello come un angelo. io gli sorrisi e lui diventò rosso, ma si ricompose subito e mi tese il braccio. Io grata lo accettai e ci incamminammo verso l’orrida entrata della scuola.
Frequentavo quasi tutte le lezioni con William, fortunatamente. E già dopo le prime tre orride ore iniziavo a distinguere qualche volto.
Durante la pausa pranzo mi sedetti al tavolo di William (ovviamente) e alcuni amici di cui ricordavo il nome solo di un certo Michel McGregor, e Angela non so cosa.
Mi presi solo un trancio di pizza e una coca, non avevo voglia di mangiare niente, quella scuola mi terrorizzava. E mi terrorizzava ancora di più l’ora successiva, quella di chimica. Ero sempre andata benissimo a scuola, tranne in chimica. Quella era una materia che proprio non faceva per me. Sconsolata uscii dalla mensa con William di fianco e i suoi amici al seguito.
Quando la vidi per la prima volta, seppi già che l’avrei odiata per tutta la vita. La terza porta di fianco al bagno dei maschi. L’aula di chimica.
Quando William posò la sua mano sulla maniglia color bronzo pensavo di svenire, ma quando la porta si aprì ne spuntò fuori un professore alto, senza dubbio bello. Aveva i capelli neri, corti. Degli intensi occhi blu e un sorriso amichevole e simpatico sulle labbra.
William lo salutò e da quello che capii si chiamava MR Allan. Quando io entrai timidamente alle spalle di William lui mi sorrise quasi divertito. Io ricambiai e seguii William verso il tavolo degli esperimenti.
La lezione procedette tranquilla senza nessun intoppo tranne per il mio incidente nel quale avevo quasi fatto rovesciare un liquido tossico in un altro.
Quando finalmente la campanella suonò mi tolsi la mascherina e i guanti di lattice, mi girai per uscire dalla porta ma mi bloccai. Un viso famigliare, straordinariamente bello era a pochi metri da me e stava parlando con una ragazza bionda. Quante volte mi ero sognata quegli occhi dolci color ambra miele, i capelli color rame, la pelle bianca, il corpo perfetto, un viso da angelo, una voce da soprano, il ragazzo dell’aeroporto.
Rimasi lì impalata per alcuni secondi, fino a quando William mi prese per il polso e mio trascinò fuori dall’aula. Io ero in stato di subconscio totale.
“Emma! Ma stai bene? Sembra che tu abbia visto un fantasma!” William era preoccupato, ma io non mi degnavo neanche di rispondergli, non che avessi potuto visto che non riuscivo neanche a collegare il cervello al resto del corpo. Dopo parecchi minuti mi ripresi e balbettai a William che stavo bene.
Lui prendendomi sotto braccio mi trascinò verso l’aula dove avremmo svolto l’ora di storia.
Quando entrai . Dopo parecchi minuti mi ripresi e balbettai a William che stavo bene.
Lui prendendomi sotto braccio mi trascinò verso l’aula dove avremmo svolto l’ora di storia.
Quando entrai ero ancora tra le nuvole, e non riuscivo a smettere di pensare al bel ragazzo dell’aeroporto.
La voce della prof mi risvegliò dai miei sogni.
“Hale, invece di sognare perché non ti siedi?”
Io imbarazzata e ancora un po’ frastornata, mi sedetti al primo banco che trovai libero, senza degnare di uno sguardo il mio vicino, ammesso che ci fosse.
La professoressa Tristuolo, fece sedere William al secondo banco, vicino a una ragazza mora di cui non ricordavo il nome.
Solo dopo poco mi accorsi di non aver nessun compagno, meglio così, non avevo voglia di continuare a sorridere, o far finta di ascoltare quello che la persona in questione mi diceva. Anzi, avevo solo voglia di pensare al bel ragazzo, che forse mi ero solo immaginata nell’aula di chimica.
Dopo cinque minuti dell’inizio della lezione qualcuno bussò alla porta dell’aula. Io sobbalzai per lo spavento e la prof andò ad aprire con il libro di storia in mano. Quando aprì la porta non riuscii vedere nessuno, ma poi sentii dire:
“Mi scusi prof, Helen si è attardata nell’aula di chimica a parlare con il prof Allan, così l’ho aspettata e siamo arrivati in ritardo. Mi scusi ancora.” La voce che parlava era dolce, mielata, bellissima.
La prof Tristuolo (che aveva solo una ventina d’anni), sorrise, e si fece da parte per far entrare due bellissimi ragazzi. Una era bassina, con un sorriso che le illuminava il volto da angelo. aveva dei bellissimi capelli corvini rilegati in due codini che le scendevano lungo le spalle, fino a circa metà schiena.
L’altro era il più bel ragazzo che avessi mai visto in vita mia. Era lui, il ragazzo dell’aeroporto. Quindi nell’aula di chimica non me l’ero immaginato.
La prof ancora abbagliata gli sorrise, e lui la ricambiò, tra i due sorrisi non c’era confronto. Lei una ragazza normale. Lui invece… lui era… era un angelo.
Quando mi voltai a guardarlo mi fece un sorriso che gli illuminò il viso. Io lo ricambiai timidamente, e vidi William che scoccava occhiatacce a James. Io senza fargli caso continuai a sorridere al bellissimo ragazzo.
Ma una parte di me mi diceva: ma cosa credi di fare? Per te c’è solo Jack! Ei non continuare a sorridergli come una scema!


un kiss a tt
ilda cullen
 
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